La memoria dell’accaduto non è in grado di seguire un percorso prestabilito dalla nostra volontà, si ricorda grazie alle situazioni che riportano alla mente episodi, date, emozioni.
Non si riesce a dare un filo logico e al tempo stesso veritiero al proprio passato al di fuori di questa prassi, al meno di mentire .
Ci sono passaggi della mia vita che non mi sento ancora di affrontare avvolti come sono in una nebbia capace di renderli sfuggenti, poco certi. Forse proprio perché sono stati gravi e determinanti, come la morte di mia sorella o la divisone da mio marito, necessitano di più ricerche.
Procedo nel tempo ricordando le case da me abitate e legate queste sì, sicuramente, agli episodi della mia vita. Salto, per ora, un anno intero di ricordi ancora nebulosi: dalle prime separazioni all’interno del mio matrimonio con Carlo Vanzina, ai primi tradimenti, alle prime fughe.
Lo salto perché non ne ho chiara la cronologia, attendo qualche riscontro illuminante sull’argomento con qualcuno dei protagonisti della mia vita.
Aspetto di confrontarmi con loro, al fine di udire episodi certi e, prima di rivelare , necessito che qualcuno mi ponga le domande giuste stimolando così la mia memoria, proprio come avviene nell’interrogatorio al commissariato di polizia nel film “Una pura formalità” di Tornatore. Il ricordo viaggia anche su una singola immagine, una parola , un nome, una località…capaci di sollecitarne il ritorno!
Palazzo Orsini sul retro poggia su Teatro Marcello
Le case, più volte cambiate durante gli anni ‘70, conservano ognuna un legame certo con l’accaduto.
Palazzo Orsini a Roma, dietro Teatro Marcello è stata la mia prima casa da separata e da single dopo la breve convivenza a casa di Gianni Rossi con Carlo Torlonia, nei vicoli di Trastevere.
Là dove , davanti all’Isola Tiberina, proprio a fianco dell’allora moderno Anagrafe e ai bordi del ghetto ebreo Stefano Almagià, nei momenti difficili prima della separazione, mi aveva offerto ospitalità, nella sua piccola dependance sotto l’appartamento dei genitori.
Un minuscolo studiò dalle pareti grigie dove soleva ricevere in libertà gli amici sfoggiando ai piedi un paio di babbucce orientali in pelle, all’epoca molto invidiate. Era il periodo dei Genesis, di Tubular Bells di Mike Oldfield ascoltato centinaia di volte per assaporarne tutte le sfumature amplificate dagli spinelli che avevamo incominciato a fumare in compagnia.
Tubular Bells
“Roll an other one…” per perdere la cognizione di una vita di cui continuavamo a non capire i contorni e l’importanza. Allora la musica sembrava restituirci i significati: chiudevamo gli occhi e ci lasciavamo trasportare dimenticando, fatto gravissimo, il presente. Perché gravissimo ? Perché dissociandoci e allontanandoci dalla realtà dimenticavamo di vivere! Non affrontavamo la problematica della vita, preferendo sognare…credendo fosse quella la via.
Quanto pericolo esistesse in tutta quella nostra fuga l’avremmo scoperto solo negli anni a venire: quante persone, amici fraterni, si siano irrimediabilmente perse a seguito della nostra comune superficialità resta purtroppo un dato di fatto impossibile a confutare.
Rana, Ranieri Ferrara Santa Maria e Stefanino, Stefano Almagià ne sono state le prime vittime.
In quelle sere trovavamo nella musica le risposte ai nostri quesiti sulla vita ma non le indicazioni per affrontarla e viverla…lo spinello assopiva ulteriormente le nostre possibilità di reazione e quindi di sopravvivenza.
La mia casa all’interno di Palazzo Orsini, la cui entrata era delimitata da una guardiola e da un cancello sormontato da due piccole statue di orsi, era ubicata in una oasi di verde culminante con una fontana di papiri sormontata da un piccolo obelisco. Su quel giardino si aprivano le stalle del Palazzo con immense cancellate in ferro dai disegni fiorati, grandi a sufficienza a permettere il ricovero di una carrozza.
Una di quelle stalle era stata oggetto di restauri che la avevano trasformata in un particolarissimo mini appartamento a tre livelli: nel sottosuolo il cucinino, il mini salotto al piano terra, la camera da letto e il bagno sul soppalco.
Finestre nella grata, cuscini e batik
I tre livelli erano collegati da una scala a chiocciola, una intera parete di vetro era addossata alla cancellata in ferro nella quale si aprivano sia la porta che infinite finestre a mezzaluna.
Sulla parete di fronte, nel salottino, vi era una grande libreria bianca e, nel corrispondente muro del soppalco, un trômpe ôeil raffigurava una foresta tropicale e i suoi coloratissimi animali esotici. Giovanni Saint Just, amico di Stefano, l’aveva ideata per me.
In camera da letto la mia jungla
Per terra stuoie di vimini, materassi e pouff ricoperti di stoffe indiane costituivano tutto l’arredamento, a causa della poca , alias inesistente, liquidità.
Durante l’unico viaggio in barca a vela con mio padre sulla “Madda”, alle Isole du Vent in Francia, ero riuscita a farmi regalare un bellissimo drappo di cotone grezzo..
Dribblando tutti gli intralci che la sua donna, Vittoria, aveva tentato per osteggiare quell’acquisto, mio padre lo aveva comperato, intuendo come io desiderassi ricevere un suo regalo per adornare la mia casa ed averlo così sempre presente. Quella tela finì a ricoprire una intera parete , incorniciata da mezze canne di bambù e ritagli di stoffa batik. Tantissimo lavoro manuale aveva garantito un ottimo risultato, negli anni del minimalismo quell’arredamento ne rispecchiava totalmente i canoni.
Sdraiata sulla stuoia davanti ai miei amici
Un disegno di Mario Schifano appoggiato all’interno della libreria raffigurava la sua mano, disegnata dall’artista , seguendone i contorni delle dita, durante una notte passata insieme nella sua casa circolare al Lungotevere sopra il Museo Napoleonico. I contorni da lui accentuati sembravano dolmen, menir, strani obelischi che si stagliavano nell’infinito: “L’arte è ciò che vedi” soleva ripetermi “ quello che il tuo spirito intuisce del mio messaggio, che può essere ogni volta diverso!”
Indubbio fascino di Mario Schifano
“Udire tra le parole” ribadiva AlighieroeBoetti, suo migliore amico in quegli anni di fervore artistico. All’entrata di casa mia avevo appeso un manifesto del pittore concettuale torinese : rappresentava “all’inizio” il disegno del pavimento del suo studio, sotto casa, in Santa Maria in Trastevere . Ne aveva regalato tantissime copie chiedendo agli amici di appenderle in modo che ognuno potesse inserire, in quelle mattonelle dai contorni romboidali, ciò che vi vedeva .
Nei rombi del pavimento faccine colorate da improvvisati artisti
Alcune, già disegnate dall’artista, servivano come esempio per la condivisione nella creatività di quell’opera, un altro tema portante di quegli anni.
Conservo ancora le foto realizzate a Palazzo Orsini da Bea, Beatrice Caracciolo, quando aspirava a divenire un emulo di Elisabetta Catalano e a tal fine si dilettava a ritrarre gli amici in book fotografici.
Era appena tornata dalla sua prima esperienza come fotografa di scena sul set di “Luna di miele in tre”, il primo film girato da Carlo Vanzina, mio marito, ai Caraibi con Cochi e Renato, anche loro al primo ciak della loro vita.
Io fotografata da Beatrice Caracciolo
Mondi perfettamente dissimili convivevano: quello del cinema caratterizzato dalla sua totale superficialità e snobismo con quello dell’arte teso invece a trovare il contatto con una realtà più profonda, più comune.
Nel mezzo noi giovani vite, attratte ora da questo ora da quello.
Sopraffatti direi da tutte quelle diversità che non comunicavano fra loro, da quei mondi artistici totalmente opposti: il cinema con Carlo Vanzina, il gruppo Lucherini-Spinola, Scarfiotti, Risi e Monicelli, seguaci di Yodorowski e l’arte con Mario Schifano e Alighiero con i loro studi frequentati dagli intellettuali, dalla élite nobile romana con Dado e Nancy Ruspoli, Marina Spinola, Ettore Rosboch e la divertente sinistra di Roberto Benigni, Ugo Porcelli e Alberto Moravia.
Stefanino Almagià seduto , secondo a sinitra in basso, vicino agli amici
Beatrice ed io convivevamo con questi due mondi, frequentandoli entrambi e poi ritrovandoci nel privato con gli amici “normali”, con Stefanino, Ranieri, Francesco Catalano, Maurizio Barendson, Bubi Leonardi, Boni Spinola, Edoardo e Margherita Agnelli, Carlo Levi, Mario Fighera, Robertino Haggiagh. Cercavamo di fare il punto sulle realtà , all’esterno del nostro gruppo , talmente dissimili da essere in effetti infrequentabili contemporaneamente.
Era come essere a contatto sia dei Guelfi che dei Ghibellini in un momento di particolare frammentazione delle idee, di divisione …lontani dalla condivisione gli uni non consideravano gli altri, li deridevano quasi fossero stati loro gli unici detentori della verità e di un modus vivendi appropriato.
La confusione era per noi di casa. In realtà non ci sentivamo parte di alcuno di quei gruppi : troppo presuntuosi quelli del cinema ‘bene’, troppo folli e dissacratori quelli dell’arte ‘maledetta’, anche se infinitamente più spiritosi ed arguti.
Benigni sapeva illuminare qualsiasi momento conviviale e la serietà dell’avanguardia artistica, con il regista Marco Ferreri in testa, i cui film erano prodotti da Ettore Rosboch e Ugo Porcelli, incuteva timore reverenziale. Loro, adagiati su comodi divani, parlavano di concetti più grandi di noi, lo facevano auto distruggendosi con le droghe, cosa potevano insegnarci? Avrei voluto vedere al loro fianco un operaio a confutarne le ragioni, anche una sola volta, riportandoli al terreno della vita reale dove si combatte per vivere.
Sballottati tra questi due mondi, altrettanto irreali, ci rifugiavamo in casa di Stefanino prima e da me poi dove tutto sembrava tornare alla normalità. Avevamo tante idee, pochi soldi in tasca, nessuna superbia e ci tranquillizzavamo passandoci una ‘canna’, convinti nulla di male potesse accaderci. Bimbi felici senza padrone, troppo liberi per poter durare. Non appartenevamo ad alcun gruppo e nessuno si sarebbe preso cura di noi.
Bea si sarebbe salvata grazie alla sua famiglia, la mia, per mia volontà, era latente !
Qualcuno tra i ragazzi, spinto dai genitori, aveva preso una ‘coscienza’ politica iscrivendosi a partiti dagli ideali totalmente diversi tra loro, senza che questa circostanza determinasse alcuna divisione tra noi. Ricordo di essere passata al partito comunista, nella sezione di Campo dei Fiori, per iscrivermi e alla domanda “Chi la raccomanda?” avevo sdegnosamente girato i tacchi per non rientrarvi mai più !
Delusa dal potere che , comunque fosse ammantato, rosso come nero, era sempre lo stesso …mi iscrissi ad un corso di recupero dietro al Pantheon, cinque anni in uno, per conseguire il diploma di liceo artistico, poi ottenuto con quarantotto sessantesimi! Studiavo Gian Carlo Argan di giorno e discutevo di notte del Mantegna e di Dalì con Mario Schifano , di Kandinsky e Klee con Alighiero e il suo alter ego Boetti.
Il doppio fascino di Alighiero e Boetti
Stranamente nessuna delle loro dimore ospitava opere di altri artisti, quando le avevano… le regalavano subito. Uniche eccezioni: i giganteschi leoni orientali di nero ebano a casa di Mario Schifano, giunti dall’Oriente ripieni di oppio e i tappeti afgani a casa di AlighieroeBoetti… non oso pensare di cosa fossero giunti ricolmi!
Solo le loro opere riempivano gli spazi nelle rispettive case: molteplici video sopra il Museo Napoleonico, quadri tessuti a mano in mille colori dalle donne afgane a Santa Maria in Trastevere.
Una bicicletta da corsa parcheggiata fuori dalla camera da letto di Mario, un tavolo da ping pong nello studio rigorosamente bianco di Alighiero, due piani sotto all’appartamento dove vivevano sua moglie AnneMarie e i bambini.
Una opera di A&B in ricordo di quelle serate: PING PONG
Ricordo le partite lì giocate a pingpong senza pallina con il pittore De Dominicis, Kounellis e Francesco Serao, il poeta. Partite virtuali dove si correva in quattro intorno al tavolo verde, gridando ognuno il proprio colpo assestato all’avversario che doveva posizionarsi in tempo per la risposta:
“Schiacciata angolo destro”, “sotto rete in centro”…ogni tanto l’arbitro Francesco Clemente gridava “net”, “fuori” e gli amici presenti, estasiati da quella rappresentazione, applaudivano i “colpi” più riusciti!
Dare spazio alle idee, permetterne l’esecuzione attraverso la volontà anche in assenza dei mezzi necessari ad attuarle per farle vivere comunque al di là delle convenzioni, superando le convinzioni di irrealizzabilità !
Bastava crederci…
Concettuale significava aderire a tutte le idee del mondo,condividendole nella loro esecuzione con gli amici, i compagni, i presenti chiunque essi fossero.
Au Cafè des Artistes
Qualche anno più tardi , dopo una mostra a Berna dove avevo ritratto seduto, al Cafè des Artistes, Alighiero in un momento di relax … con alle spalle un quadro autentico di Chagall, fui testimone della realizzazione dell’opera “Le idee del mondo” poi intitolata : “Aerei” e “Cieli ad alta quota”.
Le Idee del Mondo “Aerei”, di Alighiero e Boetti
Nel quadro era rappresentato un cielo azzurro con sopra disegnati tutti i modelli di aerei allora in essere…tutte le idee dell’uomo in grado di volare! All’epoca non esisteva Internet e la ricerca di ogni tipo di velivolo da rappresentare non fu facile avendo poi a che fare con un artista la cui pignoleria rasentava l’impossibile.
Lo stesso Alighiero che affidava le sue opere alla stesura di altre mani ( vedi le lettere ricamate dalle donne afgane o le righe disegnate con la biro dalle donne trasteverine ) era meticoloso nella ricerca sino al parossismo!
Le problematiche della vita nel gruppo e il disperdersi degli amici a causa dell’arresto di Mario Schifano, con la sua reclusione nell’orribile manicomio di Santa Maria della Pietà prima dell’ avvento della ottima, liberatoria Legge 180 “Basaglia”,… la malattia di Tano Festa… portarono Alighiero a dividere quel quadro in un puzzle !
Tutte le idee del mondo…in puzzle
Le idee del mondo non erano più unite , vivevano divise ognuna la propria solitaria realtà, potevano essere ricomposte in un unico disegno, bastava attendere, quanto non si sa!
“Segni e Disegni”